Con la metà di febbraio è arrivata una delle grandi novità in mezzo al grande caos di questi giorni: la fine dell’obbligo delle mascherine all’aperto. È stato un segnale forte.
Le Istituzioni danno un messaggio chiarissimo: la pandemia sta finendo, è finalmente sotto controllo e occorre ripartire.
Dopo tanti mesi di paure e timori – e purtroppo tentennamenti da parte dello Stato – ecco finalmente un segnale di normalità.
Ma la gente comune riesce a tornare alla normalità? A giudicare dalle persone che le mascherine le mantengono, dalla ritrosia al contatto personale alle liti che ancora emergono sull’uso di questi dispositivi sembra proprio di no. Come stanno dicendo tanti protagonisti del sociale – lo ha fatto recentemente Mario Furlan – la pandemia sta lasciando strascichi pesantissimi nelle nostre città.
Se l’insicurezza sembrava il leitmotiv delle generazioni nate e cresciute nelle crisi del nuovo millennio, oggi questo sentimento è dilagato e non ha trovato una sua elaborazione, uno sbocco o uno sfogo.
É un malessere che né i successi del Governo Draghi né – più in sedicesimo – i successi sportivi dell’ultimo anno hanno scalfito.
E l’insicurezza nasce non solo dalle prospettive non rosee dell’economia e dalla mancate risposte della politica, ma da un diffuso senso di solitudine, una vaga consapevolezza che le reti di solidarietà sembrano saltate e che – alla fine dei, spesso timidi, aiuti dello Stato – inizierà un periodo in cui tutti saranno contro tutti.
In questa inedita situazione psicologica e sociale, lo sforzo del mondo associativo diventa non solo aiutare, ma aiutare a stare insieme.
Se non si ricostruirà una grammatica della convivenza, una sintassi del piacere di ritrovarsi e stare insieme, e se non si avrà il coraggio di dire alle Istituzioni che questo è il bisogno, il centro di gravità permanente della nostra società, ogni altro sforzo sarà vano.
Marcello Menni